
Nella Francia rivoluzionaria, il colpo di stato del Termidoro portò, con l’esecuzione di Robespierre e lo scioglimento della Convenzione Nazionale, alla fine del periodo del Terrore.
Tramite la costituzione promulgata nel 1795, al fine di evitare il potere assolutistico intrinseco nella dittatura, venne stabilita la rigida separazione dei poteri: il potere legislativo venne attribuito a un sistema bicamerale, costituito dal Consiglio degli Anziani e dal Consiglio dei Cinquecento, mentre quello esecutivo venne conferito a un Direttorio composto da cinque membri.
Posto al vertice delle istituzioni quest’ ultimo, in relazione alla politica espansionistica della Francia Termidoriana, aveva individuato le due direttrici europee lungo le quali sviluppare la propria politica espansionistica:
• la prima riguardava i territori bagnati dal Reno e venne affidata ai generali Jourdan e Moreau.
• la seconda mirava ai territori italiani e venne assegnata ad un giovane generale nato in Corsica, Napoleone Bonaparte.
Nel 1796 Napoleone avviò la cosiddetta “Campagna d’Italia”, con lo scopo di far abbandonare al Regno di Sardegna la cosiddetta Prima Coalizione costituitasi contro la Francia.
Dopo ben 17 anni, l’epopea napoleonica terminò con la fallimentare campagna di Russia, che si risolse con una bruciante sconfitta nella battaglia di Lipsia del 1813, dove Bonaparte venne sbaragliato in modo definitivo dalle potenze europee continentali, alleate contro la Francia: Russia, Prussia, Austria e Svezia.
Nel 1814, dopo che la polvere delle ultime battaglie si era posata e il fumo dei cannoni diradato, i rappresentanti delle quattro potenze vincitrici: Inghilterra, Russia, Austria e Prussia si riunirono a Vienna per stabilire quale sarebbe stato il nuovo ordine e le sfere di influenza nel continente, dopo tanti anni di cruenti e sanguinosi combattimenti.
Durante il Congresso di Vienna (1814-1815), il divergere delle spinte nazionalistiche e delle mire espansionistiche delle nazioni presenti, avrebbe portato molto probabilmente all’irrigidimento delle rispettive posizioni che non avrebbe permesso di arrivare a nessun risultato condiviso, ma il ministro francese Talleyrand, propose una brillante soluzione: secondo i principi di legittimità’ ed equilibrio, era opportuno restaurare gli antichi governi sui troni usurpati dalle vicende rivoluzionarie e napoleoniche, naturalmente Francia compresa.
La proposta venne accolta favorevolmente dall’austriaco Principe di Metternich, ed ebbe un notevole successo fra i partecipanti al Congresso.
Attraverso i due trattati di Parigi vennero confermati i confini francesi del 1791, ad eccezione della Savoia, vennero creati inoltre degli stati-cuscinetto a ridosso delle frontiere francesi, per impedirne nuove mire espansionistiche: i Paesi Bassi con l’unione di Belgio, Olanda e Lussemburgo sotto Guglielmo I d’Orange, la Confederazione Germanica che sostituiva il Sacro Romano Impero, formata da 39 stati e governata da una Dieta che si riuniva a Francoforte e la Confederazione Svizzera che garantiva la sua neutralità; mentre l’Austria conservava l’egemonia sull’Italia.
Per quanto riguardava i territori italiani il Regno di Sardegna, che era sotto la sovranità di Vittorio Emanuele I di Savoia, acquisiva la Repubblica di Genova, Nizza e la Savoia, mentre il Regno lombardo-veneto, annessa la Repubblica di Venezia, venne a trovarsi sotto il controllo dell’impero asburgico, il Trentino, Trieste e l’Istria furono inseriti nella Confederazione germanica, il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla vennero assegnati a Maria Luisa d’Asburgo moglie di Napoleone, il Ducato di Modena, Reggio e Mirandola vennero attribuiti al duca Francesco IV d’Asburgo-Este, il Granducato di Toscana fu restituito a Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, lo Stato Pontificio perdeva Avignone ma conservava la piena sovranità sulle Legazioni romagnole, mentre il Regno delle Due Sicilie sotto Ferdinando I di Borbone ricomprendeva i tradizionali territori del Regno di Napoli.
Tramite la ricostituzione dell’assetto geopolitico, i rappresentanti degli stati vincitori intendevano ridefinire e restaurare i fondamenti del potere e la natura dei rapporti tra i governanti e il popolo, riaffermando con forza e determinazione il principio dell’origine divina del potere regio.
In definitiva per restituire la pace, dopo circa un ventennio di ostilità e belligeranze, era necessario un recupero pieno e acritico della fede, attraverso la sottomissione dei fedeli ai sovrani, a cui Dio aveva affidato il destino dei popoli.
Per far questo era necessario il rifiuto di ogni rivoluzione, i cui ispiratori erano stati gli illuministi, additati, dalla nuova oligarchia restauratrice, come i padri della violenza rivoluzionaria, accecati dal rifiuto dell’ordine e dalla sfiducia nelle istituzioni.
Ma quale era la sorte riservata al Granducato di Toscana?
Dal Congresso di Vienna, il Granduca d’Asburgo-Lorena Ferdinando III (1769 –1824), ottenne alcuni ritocchi del territorio e la prospettiva dell’annessione del Ducato di Lucca, in cambio di alcune terre toscane in Lunigiana.
La sua Restaurazione fu un esempio di mitezza e buon senso, giacché non vi furono epurazioni ne ritorsioni, verso chi aveva servito e operato durante il periodo francese.
I lavori di bonifica della Val di Chiana e della Maremma, videro il Granduca impegnato in prima persona, tanto da contrarre egli stesso la malaria, che lo portò a morire nel 1824.
Nello stesso anno Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (1797-1870) assunse il potere nel Granducato e dimostrò da subito di essere un sovrano indipendente nei confronti degli altri Stati, grazie anche alla sapientemente e costantemente opera del suo consigliere, il Segretario di Stato, Vittorio Fossombroni.
Il Granduca si impegnò per una riduzione della tassa sulla carne, prosegui nella bonifica della Maremma e diede un forte impulso allo sviluppo delle attività turistiche, chiamate allora “industria del forestiero”.
Dal punto di vista politico, il governo di Leopoldo II fu in quegli anni il più benevolo e umano degli stati italiani, tanto che molti scrittori e intellettuali perseguitati come: Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Guglielmo Pepe, Niccolò Tommaseo, Francesco Domenico Guerrazzi, Gian Pietro Viesseux e Giuseppe Giusti, poterono trovare asilo nel Granducato di Toscana.

Alla morte di Fossombroni nel 1844, Leopoldo II affidò la guida del governo a Neri Corsini, cui nell’ottobre 1845 subentrò Francesco Cempini.
Quando nel marzo 1847 in Toscana giunse l’eco delle prime riforme civili e politiche varate da Pio IX, fu Cempini a dover accogliere le richieste dei liberali affinché anche nel Granducato fossero avviate iniziative analoghe a quelle attuate dello Stato Pontificio.
Infatti poco dopo Leopoldo II, con un motuproprio del 6 maggio 1847, varò una riforma della stampa che riduceva il controllo della censura, cui seguì l’istituzione della Consulta e la concessione della Guardia Civica.
A Cempini segui Cosimo Ridolfi, che appena insediato, affronto la questione della devoluzione anticipata del Ducato di Lucca alla Toscana.
Dopo lo scoppio dei primi moti a Napoli e a Palermo nel 1848, il Granduca firmò lo Statuto, pochi giorni dopo la legge elettorale e quindi a fine giugno 1848 inaugurò le Assemblee Legislative.
Ma nonostante le posizioni illuminate e gli atti posti in essere del Granduca gli eventi incalzavano, infatti in seguito ai tumulti popolari che scoppiarono a Livorno, Leopoldo II decise di affidarsi ai democratici chiamando al potere Giuseppe Montanelli, questi intraprese una politica ultrademocratica, fra l’altro annunciando l’idea di una Costituente Nazionale come via democratica per arrivare all’Unità d’Italia.
In seguito, nei primi giorni del gennaio 1849, visto l’evolversi in negativo della situazione, il Granduca abbandonò Firenze e raggiunse la famiglia a Siena, di qui il mese successivo partì alla volta di Gaeta, dove si era ritirato già Pio IX.
Tornò in Toscana solo il 23 luglio 1849, dopo la caduta del governo democratico, non si oppose all’occupazione di Firenze da parte degli Austriaci il cui comandante, a conferma di ciò, emanò un proclama nel quale si affermava che l’intervento militare era avvenuto sotto sollecitazione dallo stesso Granduca.
L’occupazione militare austriaca si protrasse fino al 1855, e dopo sette anni il vento era decisamente cambiato, Leopoldo II contrariamente al passato, attuò una politica di rigida restaurazione e nel giro di tre anni smantellò l’intero sistema di garanzie costituzionali che aveva concesso dopo i moti del ’48; nel 1852 fu soppressa la libertà di stampa e conseguentemente venne formalmente abolita la Carta costituzionale.
Il 27 aprile del 1859, giorno in cui iniziò la Seconda Guerra di Indipendenza, Leopoldo II, avendo proclamato la sua neutralità nel conflitto, lasciò il Granducato di Toscana insieme con tutta la famiglia per ritirarsi a Vienna.
Ferdinando IV d’Asburgo-Lorena divenne il Granduca di Toscana, anche se solo nominalmente, fino al passaggio della Toscana al costituendo Regno d’Italia.
Nel 1870 il Granduca Leopoldo II, nel frattempo trasferitosi a Roma venne a mancare, ma la sua salma venne di traslata a Vienna nella cripta dei cappuccini, la tomba di famiglia degli Asburgo, solo nel 1915.
Nel tessuto politico e sociale del Granducato di Toscana, all’interno di un contesto italiano ed europeo dove si incrociavano appetiti espansionistici e aneliti all’Unita’ nazionale, troviamo una storia molto particolare: si tratta delle vicende di un uomo, che fece dell’onesta’ e della coerenza la sua regola di vita.
Pietro Augusto Adami nacque l’11 luglio 1812 a S. Giovanni all’Avena vicino a Pisa, da David e da Teresa de Coureil.
La famiglia Adami dal 1832 possedeva a Livorno una attività di cambiavalute e di piccolo credito che finanziava il commercio locale.
Tale attività era gestita da Davide Adami insieme al figlio Pietro Augusto Adami (in seguito P.A. Adami), che aveva avuto una modesta istruzione limitata alla pratica commerciale, ma che nel contempo aveva sviluppato un forte spirito patriottico.
Il Granduca Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, aveva ristabilito un regime liberistico favorendo le attività commerciali e finanziarie, in maggior parte relative alle attività del porto di Livorno, dando nuova linfa ai “Banchi” (le banche dell’epoca) non solo toscani e italiani, ma anche inglesi, francesi, greci, che venivano per la maggior parte condotti da ebrei.
Era il periodo nel quale nascevano le prime casse di risparmio, un tipo di istituto di credito sorto in Francia e in Germania alla fine del XVIII secolo, destinato a favorire la formazione e la raccolta del piccolo risparmio a carattere locale, che si distingueva dagli altri istituti bancari, per non avere scopo di lucro, infatti i suoi utili erano in parte destinati a riserva e in parte erogati per scopi di pubblica utilità.
In Italia le prime casse di risparmio vennero istituite al nord, la Cassa di risparmio di Padova e Rovigo nel 1822, la Cassa di risparmio delle province lombarde nel 1823 e la Cassa di risparmio di Torino nel 1827.
La Cassa di Risparmio di Livorno venne costituita nel 1836, l’anno successivo nella città venne aperta anche la Banca di Sconto, mentre nel 1840, l’antica ditta mercantile Giamari & Bastogi divenne la Banca Bastogi & Figlio, il figlio era quel Pietro Bastogi che in seguito diverra’ il fondatore della Banca Toscana di Credito.
Durante il governo democratico di Giuseppe Montanelli del 1848, il fervente patriottico P. A. Adami, venne coinvolto nella gestione della cosa pubblica, per le sue doti di onestà e di competenza.
Al governo Montanelli insediato dal Granduca Leopoldo II, con Francesco Domenico Guerrazzi agli Interni e Giuseppe Mazzoni alla Giustizia, segui il governo provvisorio costituito da Guerrazzi e gestito da un triumvirato composto da lui, Giuseppe Mazzoni e Giuseppe Montanelli.
Tra i primi atti del Guerrazzi ci fu quello di designare, il 27 ottobre 1848, P.A. Adami come Ministro delle Finanze del Commercio e dei Lavori Pubblici.
La nomina oltre a prendere di sorpresa i livornesi stupì lo stesso designato che, nonostante avesse ostinatamente declinato l’incarico, si vide infine costretto ad accettarlo in quanto il 18 febbraio bisognava firmare la Notificazione per l’emissione di Buoni del Tesoro a corso coatto, per la somma di 670.000 lire.
Con questa notevole somma di denaro, connessa agli intenti riformisti e umanitari di Guerrazzi, che prevedeva l’emissione di un prestito forzoso ad onere dei latifondisti, si poteva iniziare una serie di lavori pubblici che avrebbero eliminata la disoccupazione e favorito la creazione di assistenza sociale.
Fu proprio sulla suggestione di questi intendimenti che Guerrazzi riuscì a coinvolgere nel suo sogno utopistico P.A. Adami, che accettò la nomina a Ministro ponendo però la condizione di “…non percepire gli emolumenti della carica, per lasciarli a benefizio delle più povere vedove di Firenze”.
Anche se a Livorno si vociferava sull’amicizia giovanile tra Guerrazzi e P.A. Adami, dalla condizione posta da quest’ultimo possiamo facilmente desumere che la scelta non fosse ispirata dall’antica amicizia, quanto dalle notevoli virtù morali di Adami, che aveva fatto propri i fondamentali principi della fede cristiana.
Non completamente soddisfatto della collaborazione dei due cogerenti del Governo Provvisorio, nonché preoccupato per la debolezza militare, nel marzo del ’49 il Guerrazzi chiese e ottenne di diventare capo dell’esecutivo, ossia Dittatore.

Oltre che a consolidare la compagine governativa, il Guerrazzi mirava anche a rafforzare l’esercito, ma questo intento svanì per l’inaspettato colpo di stato controrivoluzionario promosso l’11-12 aprile dal Barone Bettino Ricasoli, da allora soprannominato “Barone di ferro”, che chiese e ottenne l’intervento degli austriaci.
Come accennato in precedenza, con il ritorno del Granduca a Firenze venne dato corso alla restaurazione, P.A. Adami era già espatriato a Marsiglia e da li a Ginevra, quindi avrebbe potuto evitare facilmente il processo e l’inevitabile condanna, ma volle testimoniare a favore dell’amico Guerrazzi, e così non poté sfuggire alla condanna e al carcere dove rimase segregato per nove mesi.
Pur riconoscendo la sua colpevolezza per l’adesione al Governo Provvisorio, come ricorda un eminente studioso E. Michel, venne riconosciuta ” …la sua probità amministrativa e dichiarato uomo di illibata fede”.

Dopo aver scontato con il carcere la sua coerenza, P.A. Adami tornò al Banco di famiglia, e impegnandosi a fondo sia nell’aumento delle attività che nel volume del capitale gestito, fece sviluppare il Banco fino al punto che il 10 febbraio del 1859 lo trasformò in una società in accomandita, la cui ragione sociale divenne “Banca David Pietro Adami e C.”
La Banca nasceva, come riportato nello statuto, con un capitale di 2.000.000 di lire suddiviso in 2.000 azioni da 1.000 lire ciascuna.
Le sottoscrizioni delle azioni arrivarono da ogni parte del mondo, anche da parte dei banchieri livornesi e fiorentini e in particolare dal mondo ecclesiastico.
Sempre secondo lo statuto, dovevano essere emesse buoni fruttiferi e banconote pagabili a vista al portatore, per l’importo di 1.000.000 di lire secondo la seguente tabella:
• biglietti da 100 lire n. 1.200 per un importo totale di lire 120.000
• biglietti da 200 lire n. 400 per un importo totale di lire 80.000
• biglietti da 300 lire n. 500 per un importo totale di lire 150.000
• biglietti da 500 lire n. 500 per un importo totale di lire 250.000
• biglietti da 1.000 lire n. 400 per un importo totale di lire 400.000
Visto che fino ad oggi, sul mercato numismatico, sono apparsi solamente i biglietti da 100 e da 500 lire, l’ipotesi largamente condivisa dagli studiosi e dai commercianti di cartamoneta italiana, ma non confermata da una adeguata documentazione storico/finanziaria, e’ che siano state emesse le banconote solo nei tagli da 100 e 500 lire, mentre la somma rimanente sia stato emesso in forma di buoni di cassa fruttiferi.
I biglietti sono stampati unilateralmente su carta pergamena, sotto la ragione sociale della banca ” Banca D. P. Adami e C.” c’e’ un timbro ovale a secco che riporta “DAVID PIETRO ADAMI & C. – DPA & C. – LIVORNO”.
La dicitura stampata sottostante e’ la seguente:
“La Banca pagherà a Vista al Portatore lire CENTO (0 CINQUECENTO) Toscane Effettive tutti i giorni dalle Ore Dieci a.m. alle Ore Tre pom. escluse le Feste d’intiero precetto – Livorno 1 marzo 1859″.
Seguono le firme del Cassiere, dei Censori e dei Gerenti, tutte le banconote rinvenute fino ad ora portano la firma di David Pietro Adami, alcune volte seguita da quella di Pietro Augusto Adami.
Sul retro si trovano due timbri a inchiostro nero: il primo riporta al centro il giglio di Firenze e tutto intorno la scritta ” DA LIRE UNA A Le MILLE – T 10″, mentre il secondo riporta Mercurio seduto con caduceo e la scritta intorno “CARTA GRADUALE”.

Piuttosto recentemente e’ avvenuto un ritrovamento, che ha portato alla luce alcuni biglietti che hanno tutte le caratteristiche dei biglietti emessi (firme, numerazioni, timbri, contrassegni, ecc.) ma che sono tuttora attaccati alle rispettive matrici.
Si tratta di biglietti pronti in tutto e per tutto per essere immessi nella circolazione, ma che di fatto non sono stati strappati dalla matrice (a parità di numero e serie, la ricongiunzione perfetta dello strappo fra madre e figlia, permetteva di riconoscere le banconote originali da quelle contraffatte) per cui si presume che non siano circolati affatto.
Da cosa può trarre origine questa anomalia?
L’ipotesi più accreditata, tra gli studiosi di cartamoneta italiana e’ che le banconote fossero pronte e firmate, ma che si aspettava, forse tramite un aumento del capitale o un grosso introito da convertire in oro e da utilizzare come riserva a garanzia della cartamoneta emessa, per poter finalmente strappare le banconote dalle loro matrici e utilizzarle come valuta circolante.

P.A. Adami fu poi tra quanti, patrioti democratici nel ’48-’49, si orientarono nettamente nel 1859-1860 a favore della monarchia piemontese. Nel ’58 mise a disposizione di Cavour la propria organizzazione bancaria perché potesse essere lanciato in Toscana il prestito del governo subalpino; dopo la pacifica rivoluzione toscana del 27 aprile 1859, venne nominato membro della Consulta ed eletto deputato all’Assemblea dei rappresentanti della Toscana, fu tra i nove firmatari della proposta presentata il 16 agosto dal marchese Girolamo Mansi, che esprimeva il “…voto della Toscana di far parte di un forte Regno Italiano sotto lo scettro costituzionale del Re Vittorio Emanuele”; fece inoltre parte della deputazione che presentò al Re il voto dell’Assemblea.
Nei primi mesi del 1860 P.A. Adami incontrò Giuseppe Garibaldi, che era andato a Livorno per concordare con l’armatore Rubattino I’acquisto delle navi per compiere la Spedizione dei Mille, offrendogli sostanziosi finanziamenti per l’audace impresa.
Giuseppe Garibaldi, dopo essere entrato in Napoli, tramite decreto dittatoriale del 25 settembre 1860, concesse alla società livornese di P.A. Adami l’appalto per la costruzione della ferrovia, non soltanto per la Sicilia, ma per tutto l’ex regno borbonico.
Nel frattempo P.A. Adami aveva sposato la figlia di Adriano Lemmi, un amico e banchiere livornese che in seguito sarebbe diventato Ministro e Gran Maestro della Massoneria; insieme al suocero aveva costituito nel 1861 la “Società ltalica Meridionale”.
Il contratto, redatto da Ivano Carlo Cattaneo, firmato tre giorni dopo da Antonio Bertani, segretario generale della dittatura garibaldina, sollevò vivacissime polemiche.
Nella seduta della Camera di Torino del 6 ottobre, il deputato Carlo Poerio interpellò il presidente del Consiglio sulla validità del contratto, Cavour rispose di ritenere che la concessione di Garibaldi eccedesse i limiti del potere dittatoriale.
Inoltre tale iniziativa era in contrasto con gli interessi della potentissima famiglia Rothschild di Parigi, che strinse alleanza con il Conte Pietro Bastogi per costituire nel 1862, la “Società ltaliana per le Strade Ferrate Meridionali”, concedendogli in seguito il finanziamento necessario all’apertura della Banca Toscana di Credito, che avrebbe messo in atto un’attività di aperta concorrenza contro la Banca Adami.
P.A. Adami si rivolse allora al Ministro dei Lavori Pubblici del Regno d’Italia per trovare un piano di collaborazione atto al finanziamento delle strade ferrate ma, in considerazione della sudditanza di Cavour nei confronti dei Rothschild, a cui era debitore per gli interventi indispensabili alla realizzazione dell’Unità d’Italia, il Ministro Ubaldino Peruzzi prese tempo, rinviando g1i incontri e favorendo contemporaneamente la collaborazione con Bastogi.
A questo bisogna aggiungere che il 24 agosto 1860 il ministero costituzionale di Francesco II di Borbone, aveva già concesso alla società Gustave Delahante gran parte delle linee assegnate ad P.A. Adami e al Lemmi dall’Eroe dei due Mondi.
Questi ultimi accettarono le nuove condizioni, permettendo a Garibaldi di modificare il 13 ottobre il primitivo decreto.
L’intera questione fu portata l’anno seguente in parlamento da U. Peruzzi, ministro dei Lavori Pubblici, con il quale P.A. Adami il 30 aprile 1861 aveva firmato una nuova convenzione, che con ulteriori modifiche venne approvata dalla Camera e dal Senato; alla Società Italica Meridionale venne affidata la costruzione delle ferrovie da Taranto a Reggio Calabria, da Messina a Siracusa e da Palermo a Catania, con una diramazione fino ad Agrigento, per un complessivo superiore ai 900 chilometri di strada ferrata.
Purtroppo P.A. Adami non poté realizzare l’opera; in difficoltà finanziarie, cedette la maggioranza azionaria della propria compagnia alla società “Vittorio Emanuele”, finanziata da Ch. Lafitte, che ottenne dal governo, nel luglio 1863, previo scioglimento della società già di proprietà di P.A. Adami e di Lemmi, la costruzione e l’esercizio delle “Strade ferrate calabro-sicule”, da cui derivò la denominazione della nuova società.
La guerra tra Adami e Bastogi si inasprì dopo l’apertura della Banca Toscana di Credito nel 1860 che, con azioni di bassa concorrenza, riuscì a portare dalla sua i clienti migliori, riducendo sempre più l’attività della Banca Adami che, in pochi anni, fu costretta a chiudere.
Pietro Bastogi, dopo la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861, venne chiamato a far parte del gabinetto Cavour, ricevendo l‘incarico di Ministero delle Finanze.
Il Pietro Bastogi ministro operò l’unificazione dei debiti pubblici degli stati pre-unitari, imbattendosi nel debito contratto dal Granduca di Toscana nei confronti di se stesso in veste di banchiere, quando gli prestò dei soldi per finanziare la repressione dei moti carbonari del 1849.
Quindi Pietro Bastogi, uomo di governo, firmò gli atti che permisero al Pietro Bastogi, banchiere, di recuperare quei soldi che erano serviti per combattere la nascita proprio di quel governo in cui sedeva, come si direbbe oggi “in pieno conflitto di interessi”.
Dopo il fallimento della banca di famiglia, P.A. Adami avrebbe potuto sottrarsi alla perdita delle sua proprietà, vendendole e inviando all’estero i capitali, ma anche questa volta preferì esitare ogni suo avere riuscendo a saldare così tutti i sospesi verso i debitori e dipendenti, rimanendo però in questo modo “povero in canna”.
Passato dalle stelle alle stalle, si trovò nella necessità di cercare un lavoro per potersi mantenere, in questo gli venne in aiuto l’amico e suocero Lemmi, che avendo ottenuto la concessione dei Monopoli dello Stato gli offri un modesto impiego di magazziniere nella Regia Manifattura Tabacchi, prima a Ferrara, poi a Livorno e infine a Pisa, dove P.A. Adami risedette dal 1867 fino al 1898, anno nel quale morì come un uomo onesto e coerente.
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di Stefano Poddi