Un titolo al portatore per dieci azioni emanato nel 1874 dalla Banca di Varese di depositi e prestiti. Il documento di oggi ci permette di parlare di un istituto sorto il 29 maggio 1873 grazie a un reale decreto. La storia di questa banca si conclude tragicamente il 22 febbraio del 1913, quando il tribunale di Varese ne decreta il fallimento.
In città si raduna una folla di correntisti conviti di poter ritirare i propri risparmi, ma il tentativo risulta vano: la banca è irrimediabilmente chiusa. L’istituto, dopo i primi decenni in cui tutto filava per il meglio, viene travolto dalla crisi economica che attanaglia il Paese prima della Grande Guerra oltre che da una serie di speculazioni e investimenti arditi.
Tanto che il buco finanziario, secondo una prima stima, ammonta a diciotto milioni, buco che dopo un’approfondita indagine risulta molto più consistente, circa 27 milioni. Inoltre 4mila correntisti sono sul lastrico, così che tutta Varese subisce pesantissime ripercussioni. Di seguito riportiamo alcune indagini giornalistiche sul fallimento dell’istituto, tratte da giannispartareport.wordpress.com, da cui emerge tutta la drammaticità della situazione. La Banca, negli anni, ha finanziato anche numerosi eredi delle antiche dinastie meneghine e il Corriere della Sera prende atto che “è forse in questo errore di target, come si direbbe oggi, va individuata la causa principale del fallimento”.
Sulla Prealpina si spiega che “la banca aveva privilegiato gli affidamenti a vecchi turbanti dei grandi gruppi di Milano preferendoli alle centinaia di piccole imprese che chiedevano strada per lo sviluppo nel territorio varesino, allora sottomesso alla signoria della provincia di Como. Stava cambiando la classe dirigente in quegli anni, gli amministratori della banca o non se n’erano accorti e avevano continuato a seguire i percorsi tradizionali. L’istituto si era dunque esposto su un fronte che era solido e accreditato solo in apparenza.
Quando i nodi vennero al pettine, fu uno choc autentico per Varese. La notizia del fallimento venne diffusa con manifesti murali firmati dal sindaco Della Chiesa. Parole drammatiche: cari concittadini, la nostra zona fu colpita da grave sventura”. Dopo il crack vengono arrestati il direttore della banca e il presidente Tito Molina. Roberta Lucato, ricercatrice di Venegono che ha condotto un’indagine approfondita sugli eventi del 1913, traccia un quadro a tinte fosche sul contesto storico in cui si materializza il fallimento della Banca di Varese: “Nel bene e nel male, nella crisi dell’epoca e nei comportamenti delle persone, mi sorprendono i parallelismi con la nostra epoca. C’era crisi internazionale anche cent’anni fa per le inquietudini nei Balcani, per le conseguenze della sciagurata avventura coloniale in Libia.
E c’era crisi politica: Labriola aveva intimato a Giolitti di andarsene. La storia non si ripete, dicono, ma suoi coaguli hanno la capacità di riprodurre nel presente episodi del passato. Nel 1913 c’era anche puzza di guerra: sarebbe esplosa di lì a poco, e c’era nell’opinione pubblica la convinzione che le giovani generazioni si fossero lasciate travolgere dal materialismo”. Nello specifico i 4mila creditori ingannati riescono a ottenere solo un minimo risarcimento. Come racconta la Lucato “finì male perché i creditori ebbero il quaranta per cento del dovuto mai sei anni dopo, nel 1919, cioè al termine della guerra che aveva prodotto svalutazione e rincari. Finì con un concordato tra il curatore del fallimento, un certo Ernesto Cazzaniga, ragioniere di Milano, e due avvocati, Beltrami e Mazzola, rappresentanti dell’assemblea dei correntisti.
Erano talmente numerosi che si radunavano nella sala del Politeama Ramscett. Tito Molina, arrestato ai primi di marzo, restò dietro le sbarre fino al luglio. Suo fratello Paolo morì quasi di crepacuore, il figlio di lui Luigi, stesso nome del nonno che aveva fondato la banca, continuò a occuparsi degli affari della famiglia. Il Credito Varesino, l’altra banca della città, ebbe un ruolo determinante negli interventi a vantaggio delle fabbriche che non potevano pagare il salario ai dipendenti”.